senza titolo

testo iniziato i primi di novembre (2022)

 

non è una recensione, non è una riflessione articolata, i riferimenti fuori da me sono pochi e associati per suggestioni

 

è un tentativo di capire meglio una cosa aggrovigliata che mi è venuta in mente dopo aver visto La pantera delle nevi

 

 

1

 

Mi capita raramente di voler scrivere qualcosa dopo aver visto un film. Come dicevo di recente a una persona – era da un po’ che non mi succedeva di parlare con unx cinefilx, e mi torna in mente quando ascoltavo Luca per ore (stra)parlare di film mentre lui, io e la sua bicicletta camminavamo per Roma – raramente mi trovo a mio agio commentando i film che ho visto.

 

Probabilmente i motivi sono tanti e intrecciati, non è particolarmente rilevante capire quale prevalga e quando.

Sicuramente mi dà sempre la sensazione che ci sia una competizione sotterranea, intellettiva o intellettuale, dietro queste conversazioni sui film, dopo i film. E io mi sono sempre sottratta.

1 Mi fa paura, mi fa sentire sotto osservazione o comunque potenzialmente giudicata. Dopo tutto, sono cresciuta tenendo in grande considerazione, implicita, ed esplicitamente negata, quello che gli altri o le altre pensavano di me. People pleaser si dice ormai sui reel di instagram. Mi ricordo una delle prime volte in cui ho parlato con un ragazzo che mi piaceva, ho mentito su due film che non avevo mai visto (se mi ricordassi i titoli potrei rimediare). Troppo imbarazzante l’alternativa di non essere all’altezza.

E se anche molti anni dopo, non lo faccio più, le volte in cui devo confrontarmi su qualcosa – qualcosa che mi piace tantissimo, come vedere film o leggere un libro – la cosa mi affatica. Perché se non sono altrx a esercitare su di me una certa pressione od ostentazione di sapere, capacità di lettura, interpretazione critica, allora sono io che rischio di farlo. In nessuna delle due direzioni questa modalità mi rassicura (o almeno, non lo fa più). 

 

2 Poi, non mi piace parlarne perché capita che i film di cui effettivamente parlerei, mi stimolano pensieri che hanno a che fare con dimensioni molto intime, ragionamenti che richiederebbero molti passaggi e molte spiegazioni su di me, per essere condivisi. Sensazioni che hanno a che vedere con l’essere caduta in un pozzo, come scriveva Natalia Ginzburg un bel po’ di anni fa. E’ faticoso pensare di poterlo fare e forse più faticoso ancora trovare qualcuno che capisca, quindi desisto.

Ricordo quando tuttx parlavano di Storia di un matrimonio. Mi era sembrato di stare in una stanza piena di persone che raccontavano di un viaggio a cui non avevo partecipato, in una lingua straniera. Mi ero limitata a dire che il film mi era piaciuto, senza essere in grado di dire che era stato devastante rendermi conto che non riuscivo in alcun modo a empatizzare con i protagonisti sulla scena, perché nei fatti non ho mai amato nessuno. 

 

3 Ancora, il più delle volte, il tempo che intercorre tra la fine di un film, che sia da quando chiudo il pc o da quando mi allontano dalla sala, e il momento in cui potrei parlarne, sembra spazzare via le sensazioni e in alcuni casi i pensieri stessi. Si volatilizzano o sono io che li forzo a non uscire: state lì, che tutto rimanga nei minuti della proiezione e non mi venga dietro, fatela finita. 

 

Ogni tanto però ho bisogno di parlarne, o di scriverne, solitamente succede quando noto una dissonanza tra come mi sentivo o quello che pensavo durante il film, e i pensieri, le considerazioni e soprattutto le domande sorte dopo. Spesso il giorno dopo. È il caso de La pantera delle nevi, visto il 2 novembre al Beltrade (in versione originale;ho sentito qualche minuto del film doppiato e fa accapponare la pelle).

 

Ero da sola. L’ultima volta che sono andata da sola al Beltrade erano i primi giorni del 2020, avevo visto Farewell, che faceva capolino anche in uno dei pochi post del blog che stavo cercando di riprendere in mano, poi fallito come sempre.  Stavo passando un periodo complicato, mi sentivo molto sola, una pianta gelata, pensarci mi angoscia, ma allo stesso tempo mi gongolo un po’, realizzando che due anni di pandemia dopo e nessuna grossa differenza relazionale – mi ero convinta che il problema fosse non avere un partner – sto molto meglio. 

 

Insomma, ho visto La pantera delle nevi e via via che sono trascorse le ore dalla proiezione, mi sono fatta molte domande sul perché mi sia piaciuto così tanto. E se questa cosa vada spiegata, e in che forma, almeno alle persone a cui l’ho consigliato subito dopo. O se più in generale, vada spiegata per capirla meglio: cosa che mi sono abituata a fare per molto di ciò che mi succede. Se parlo, scrivo, provo a spiegare, faccio ordine, vedo le parole, le sento, allora le capisco molto meglio di quando stavano solo dentro di me. 

 

È una banalità? Forse sì, ma teniamo questa parola perché tornerà ancora.

 

2

 

Partirei da una premessa scontata: tutte le volte che ci mettiamo davanti a un film, abbiamo una certa sensibilità o predisposizione, un misto di presente cogente (oggi, 2 novembre 2022) e di chi siamo, cosa stiamo passando, cosa ci piace più guardare, in cosa ci vogliamo rispecchiarci o meno, se vogliamo trovare modi per capire meglio questioni che ci stanno a cuore, o semplicemente se vogliamo svagarci, staccare il cervello, goderci un film fatto bene solo perché ci piace vedere una cosa bella (solo in parte estenderei lo stesso ragionamento alla narrativa per esempio).  

Non di rado mi è capitato di non essere d’accordo con me su un film, a distanza di anni e la trovo una cosa rassicurante. Allo stesso tempo, sono assolutamente in grado di capire perché in quel momento avessi visto qualcosa in quel modo e ne avessi tratto quelle conseguenze. 

Quindi non servirebbe a granché dire come mai La pantera delle nevi mi è piaciuto, potrebbe essere una questione molto personale, solo mia, di come stavo mercoledì. 

Tuttavia, quello che da un po’ di anni sto cercando di fare, a fatica, è di non avere a che fare solo con me. E non solo perché questo modo di fare mi stava facendo crescere come una donna (sì, non è che a un certo punto si smette di crescere) isolata, anche quando immersa in relazioni sociali, ma anche per una questione politica. Vorrei trovare il modo di leggere e affrontare alcune questioni per quello che sono, ovvero qualcosa che va al di là di me, pur riguardando anche me. E vorrei provare a capire in che modo alcuni pensieri possano diventare dei piccoli fili percorribili che mettono in comune le parole, ma parole che siano lì non per ingrossare l’ego, ma per costruire cose nuove. 

 

Questo è forse il motivo principale per cui sto ancora pensando a La pantera delle nevi.

 

Mentre lo vedevo mi sentivo sempre più sciolta, come in progressivo rilassamento, una sensazione che a volte devo forzare quando per esempio, a letto, i miei muscoli sono molto rigidi, allora devo inspirare ed espirare per rilassarmi (sono fibromialgica, il rilassamento muscolare per me è come la sinistra nel pd: non esiste). La sensazione in sala è stata di progressivo srotolamento rilassato e meraviglia, a tratti commozione. In una delle poche scene in cui si vedono altre persone oltre al fotografo e allo scrittore protagonisti il mio cuore non ha retto: una sequenza con adulto e bambino che giocano mentre cade una neve soave, come due mondi che si avvicinano, lo splendore del piumaggio di un uccellino in primo piano, e una colonna sonora neanche troppo incredibile, ma con la voce di Nick Cave. E da queste sensazioni, che mi hanno stimolato per lo più le immagini (sulle parole tornerò dopo), vorrei partire.

 

3

 

Non sono stata cresciuta a contatto con la natura. Se escludiamo il mare, visto da fuori (che è molto diverso dal mare visto da dentro) e da una porzione di mondo vegetale su cui è stata costruita casa mia (che ancora oggi a tratti, la mia famiglia chiama campagna anche se siamo in pieno centro urbano), ho quasi per nulla sperimentato il contatto con quello che riguarda più gli esseri viventi non umani che gli umani. 

 

Sono sempre stata una persona molto sensibile e attenta ai dettagli, ma la mia attenzione (visiva, mentale, politica) è sempre stata molto attirata e sollecitata dagli umani. Se escludiamo un’amicizia lunga, ma molto strana, direi oggi distaccata, con Wolly, un cane che mio padre acquistò (la specifica è d’obbligo) nel 1992, vissuto per sedici anni, e a cui ancora oggi mi sento molto legata – mi capita di pensare di vederlo, tornando a casa – non ho avuto reali contatti con animali. Né conoscenza, neanche minima, delle o passione per le piante. 

 

Negli ultimi tre anni (tre a spanne, è abbastanza inverosimile e delle volte controproducente cercare di trovare dei precisi punti di svolta o di cambiamento nella propria vita, cancella il fatto che la trasformazione e il cambiamento siano un processo e non una finestra che si apre o chiude) sto cercando di capire che relazione può esserci, o vorrei che ci fosse, tra me e il mio modo di vivere, e ciò che non è urbano o antropizzato, insieme a chi in teoria vive questa terra da animale non umano.

 

Per farlo non ho seguito uno schema preciso, forse posso riprendere alcuni flash senza logica o cronologia ma in sostanza, da buona secchiona, ho trovato i modi per me più adatti e confortevoli di rieducarmi a ciò che non conoscevo e non conosco. Sono solo all’inizio, ovvero ho iniziato a farlo usando ancora soprattutto strumenti che maneggio bene e stando nella mia comfort zone. Conto di uscirne a un certo punto. Ecco i flash. 

 

-Osservare il cambiamento degli alberi e delle piante e di ogni altra forma vivente a casa a Modica, nei quattro mesi trascorsi lì. Ripetizione, osservazione. Sembra pazzesco, ma in 18 anni in cui ho vissuto lì non ho mai passeggiato tra i carrubi né mai capito quanti diavolo di alberi da frutto ci fossero. 

– Camminare in luoghi diversi dalle mie amate città, dove ho sempre desiderato stare e perdermi (la me adolscente mi guarda con grande disapprovazione).

– Camminare nelle cave (fluviali, per i non autoctoni).

– Camminare e solo camminare (estate 2019). 

-Un breve passaggio di decolonialità e privilegio di rachele borghi su una pubblicità di hamburger nel metrò di parigi (ma molto più di questo). 

-Aver smesso di mangiare animali non umani, aver quasi completamente eliminato i loro derivati.  

-My octopus teacher – Film documentario diretto da Pippa Ehrlich e James Reed – 2020 (la traduzione in italiano rende l’idea di quanto poco si sia colto il senso del documentario, trasformando in “amico in fondo al mare” quello che nella versione originale è un’insegnante, apostrofo d’obbligo perché il pronome usato durante il film è sempre she).

-Alcuni testi, alcuni morsicati altri conclusi: altre menti; animali non umani; questioni di specie.

 

Ecco, con queste lenti, 90’ di fotografie e sequenze meravigliose di paesaggi completamente nuovi, incontaminati, privi della nostra presenza e immagini di animali, ripresi – pare con grande rispetto – durante lo svolgersi della loro vita, per me non rappresentano niente di già visto.  E in più, si insinuano in un piccolo spazio che ho appena iniziato a creare e che è dedicato a stupore e meraviglia per qualcosa che non avevo praticamente idea che esistesse. E che mi sembra possa essere grandissima fonte di gioia, al di fuori degli schemi di funzionamento sociale a cui siamo abituate.

 

Se anche quindi la mia meraviglia avesse annebbiato altre letture (mi viene il sospetto quindi di non essere stata oggettiva nel valutare il film in termini tecnici, non che io sia un’esperta ma ormai un po’ di occhio ce l’ho), mi interessa così tanto essere respingente, cinica, disfattista e in fin dei conti snob e supponente, rispetto al potenziale magico di una complessa bellezza naturale? 

 

La prima risposta è senz’altro no, non mi interessa. E non perché i cani sono meglio delle persone (frase su cui dovremmo aprire un’altra discussione), ma perché guardare con attenzione, riconoscere come complesso, conoscere e capire (o conoscere e non capire), meravigliarsi, leggere la bellezza di tutto ciò che è vivente ma diverso dall’essere umano, potrebbe aiutarci in almeno due cose: prenderci delle responsabilità e provare a (ri)costruire non in termini dicotomici (ti contemplo o ti sfrutto) ma di relazione/interazione più paritaria, il nostro rapporto con gli elementi e i viventi. 

 

Un altro elemento che collego molto alla mia reazione mentre vedevo il film è legato al fatto che potrebbe genericamente farci bene reagire a ciò che diamo per scontato, o che non reputiamo prioritario nel nostro quotidiano (anche se lo è, a un certo punto viene fuori), come fanno i bambini e le bambine: con schiettezza e meraviglia, senza troppo timore (almeno finché sono piccolinx e hanno adulti di riferimento che fanno uno sforzo di supporto e non di giudizio) di mostrare quello che sentono, qualunque cosa sia, senza essere additati come ingenui o banali. 

 

 

Torniamo alla parola banale, che forse è quella che mi è venuta in mente di più il giorno dopo. Il documentario prende le mosse da un libro scritto da Sylvain Tesson che è anche uno dei due principali protagonisti umani del film. La sua voce, nella lettura di alcuni passi del suo libro (o comunque di testi da lui scritti) accompagna le immagini e la musica. È forse la cosa che mentre guardavo ho notato meno, ma che il giorno dopo mi ha fatto sorgere alcuni dubbi: le frasi sono molto personali – in che modo quel viaggio, quegli appostamenti, gli scambi con il compagno di avventure, lo abbiano fatto riflettere sulla propria vita, le priorità, la felicità, l’amore – ma proposte come spunti di riflessione generale, direi comunitaria. 

 

Dov’è il (mio) dubbio e poi il (mio) fastidio? Con negli occhi quelle meravigliose immagini, quelle frasi mi sembravano coerenti, direi quasi giuste: le contraddizioni della vita contemporanea, la città, la frenesia, non lasciare spazio al bello, alla natura, il tentativo umano di sopraffazione, la velocità senza mai lasciare spazio alla lentezza etc. Eppure il giorno dopo, quelle stesse frasi suonavano nella mia testa come estremamente banali. Al punto che mi sono quasi vergognata di non averlo notato (sì, ok, sono una drama queen).  

 

Allora ho aperto l’internet e ho cercato sul dizionario il termine banale, scoprendo che deriva da un termine francese che inizialmente indicava qualcosa di «appartenente al signore» (inteso proprio come signore nel sistema feudale, non come u signuri come io avevo erroneamente interpretato all’inizio da buona terrona che sono), ma che è diventato poi indicativo di qualcosa di  «comune a tutto il villaggio». Insomma, una cosa comune a tutto il villaggio, dopotutto, non può avere carattere di eccezionalità od originalità, diventa priva di particolare importanza, dunque è banale, ovvia, scontata. Il passaggio da qualcosa di comune a tutti, al valore spregiativo dell’aggettivo banale, mi ha fatto sobbalzare.

 

Su instagram seguo una pagina in cui Niall Breen pubblica le sue strisce che per lo più sono racconti di una bizzarra coppia di un doggo e una ranocchia. 

 

Alcuni giorni le guardo e sorrido, altri mi chiedo se io non stia perdendo colpi dietro disegni e messaggi così banali, che il più delle volte raccontano amore, affetto, cura e presenza. 

Ma che c’entra Niall Breen con la pantera delle nevi? 

 

Mi sono chiesta se mi (e ci) faccia effettivamente bene cestinare (o snobbare) alcuni discorsi come banali – giudicandoli per esempio come privi di complessità o spessore, o esenti dal dolore – quando invece veicolano messaggi che ridanno centralità a temi che non solo stiamo palesemente ignorando (vedi alla voce: ecosistema o cura) ma che potrebbero essere terreno di lavoro, cooperazione, scambio comunitario. Quindi, essere o diventare ragione per avvicinarci e unirci nelle lotte e non allontanarci e separarci. 

 

E se la frase banale fuori campo di chi racconta di essersi guardato dentro durante un periodo in Tibet, lontano dal rumore assordante di una metropoli, più che essere autoconclusiva in sé – e quindi sì, forse priva di originalità perché chiude e non apre – fosse solo uno spunto, la strada su cui ci si mette per capire come lavorare dentro e fuori dalla metropoli perché smetta di essere luogo di oppressione e sfruttamento che non ci permettere di vivere una vita piena e felice? 

 

Domanda banale?