Ginocchia sbucciate

venerdì 17 2020 treno desio-milano p.ta garibaldi

Ci sono dei ventilatori sul soffitto di questo palazzetto che adesso è una chiesa evangelica, credo. Si muovono, le pale ruotano e mi chiedo se siano accesi o se siano gli spifferi, lì in alto. Eppure ci sono i riscaldamenti, a 26°, fanno così rumore che da dove sono non sento il ministro o pastore. Non saprei come chiamarlo. Poi ce ne sono due, uno sembra più importante dell’altro.
Ci sono dei vasi di felci sulle scale interne.
Ci sono dei bigliettini da visita blu su cui noto solo la parola gospel. Gospel bianco scritto maiuscolo. C’è un orologio dell’ikea identico a quello che abbiamo in ufficio.
Prendo un bigliettino mentre aspetto, non lo guardo neanche perché quel gesto che ho fatto quasi istintivamente non ha niente a che vedere con il motivo per cui sono lì. Me ne vergogno.
Sono in una chiesa che non ha niente delle chiese che conosco, se non una croce bianca che noto dopo un po’. La chiesa non è buia, non sa di incenso, non è stretta e lunga. È un palazzetto.

Sono lì perché qualcuno è morto.
Entra la bara ricoperta di fiori ed è sempre la cosa più strana. È strano immaginarsi un attimo prima vivi e un attimo dopo chiusi in una scatola di legno. Provo sempre molta invidia per chi ha la certezza che non siamo in quella scatola di legno ma altrove.

È morta una persona, un papà, un marito, un fratello, un cugino, un amico di qualcuno seduto lì. Sono lì per questo.

Mentre camminavo verso lì dalla stazione, con google maps aperto e le dita rigide dal freddo, Desio era gelata, piccoli cristalli di ghiaccio ricoprivano le aiuole e l’asfalto. Continuavo a pensare: e se cado? Mi rompo una gamba o il mento? Mi sbuccio un ginocchio? La mia mente non riesce a fermarsi, il peggio è sempre dietro l’angolo, i pensieri negativi per me hanno una funzione protettiva e protettrice. Mi convinco che se penso al peggio e poi succede, allora sarò pronta. È un pensiero automatico, cerco di arginarlo. Mi ricordo perché sono lì.

Arrivo sulla strada della chiesa e avvicinandomi riconosco una casa dove sono stata. Leggo sul muro una scritta che forse avevo già visto lì, ma oggi sembra essere una beffa. Sento un odore acre di morte, dice, o qualcosa di simile.

Un funerale.
Sì, è morto il papà di Roberto.
Chi è Roberto?
Un amico, sta diventando un amico, una persona che, con poco, mi è stata accanto in questi ultimi mesi. Roberto è una persona sorprendente.

Suo papà se ne è andato e sono lì perché voglio essere lì per lui, qualsiasi cosa significhi.
Il primo funerale che ricordo era quello del padre di federicaviola, morto improvvisamente. Avevamo 10 anni, andai con mio papà, ricordo che piansi attaccata a lui, non ricordo più se per lei, che era la mia migliore amica allora, o per me e mio papà, desiderando che non capitasse mai a me.

In “Vite che non sono la mia” si parla molto di morte. L’ho letto a tratti con sollievo, felice che qualcuno avesse scritto quello che spesso mi ritrovo a pensare. Sollievo, quando la morte colpisce gli altri e non me. Non solo sollievo e non per prima cosa sollievo. Ma anche sollievo, come a dire, è orribile che sia successa questa cosa, ma se fosse successo a me? Se fossi io a dover affrontare un vuoto, un’assenza, in quale strada buia sarei persa? I funerali mi fanno sentire scoperta, piango per il dolore altrui ma piango soprattutto per il mio. E me ne vergogno, ancora.

Mentre camminavo attenta a non scivolare e non rompermi le ossa, mi dicevo che non ero lì per piangere ma per stare vicino, anche solo occupando 10 centimetri di pavimento. Chissà poi quanti centimetri occupiamo quando stiamo in piedi. Chissà quanti ne occupo io che ho i piedi enormi.

Poi, lui si è alzato in piedi, con un quaderno che portava in tasca quando è entrato, si è avvicinato al leggío e al microfono.

Del resto delle cose dette dagli altri, delle letture religiose e dei canti, non ricordo molto. Forse il pastore alla fine, che mi sembrava delirare, e continuavo a non capire se avesse un accento veneto o sudamericano.  Ricordo la madre che da un piccolo taccuino, un’agenda, parlava del suo amore. Amore è qualcuno che ti fa sentire importante, anche quando ti senti, ti definisci o forse sei, “l’ultima ruota del carro”.

Poi, lui si è alzato in piedi, con il suo cappotto blu e una sciarpa beige poggiata attorno al collo, lunga. Si può essere così belli ed eleganti a un funerale? I suoi orecchini si vedono da dove sono io, in fondo.

Poi, lui si è alzato in piedi, ha aperto il quaderno e ha iniziato a leggere.

Ieri ho letto un articolo che parlava di traduzione, una traduttrice racconta che quando legge e traduce è come se ascoltasse una musica, il ritmo della musica nella lettura la guida. Per capire se ha tradotto bene deve risentire quella musica, quel ritmo.

Poi, lui si è alzato in piedi e si è fatto spazio nelle mie orecchie e nella tensione del palazzetto. L’ho sentito come una musica, scandiva le parole, faceva una pausa, prendeva fiato, leggeva consapevolmente, ci guidava tutti nel suo mondo, nel mondo di suo padre e in quella che è la storia di due persone o forse di quattro persone. Roberto parlava per sé e per chi era lì, le sue parole lucide ma non fredde, incredibilmente vere e bellissime, ci rassicuravano. Ci diceva, o si diceva?, andrà tutto bene. C’era il rimpianto, il dolore, il non detto, c’era lo sguardo attento, amoroso, che poggia sugli altri, che descrive suo padre, le sue mani e la sua fragile bellezza. Si ferma, il quaderno trema, riprende le forze, chissà dove le prende, mi chiedo. Si è fatto largo nel dolore suo e delle persone presenti. Com’è stabile nel suo andare a pezzi, com’è certo che suo padre sia nell’universo attorno a noi.

Com’è bello, di quella bellezza che emana una persona che ama senza fatica e senza rimpianti, che soffre senza vergogna, che sa dire grazie, vedere gli altri. Li riconosce e li ringrazia uno alla volta.

Com’è bello. Non posso che desiderare che non cada mai, o che al massimo si sbucci un ginocchio.

 

[edit: non era un palazzetto ma un capannone]