From an actual lie

La sera verso quest’ora sui tram che passano da Cordusio c’è odore di fritto. Fritto zozzo di quello che si dice che poi ti scoppiano le vene.
Hanno aperto KFC lì accanto e forse aspettare troppo fa venire fame. O forse si diranno perché non prendiamo le patatine e il pollo fritto per cena, sì dai perché no.
I sacchetti sanno così tanto di cibo che ogni volta la mia bocca si riempie di saliva, e mi dico la prossima lo faccio anche io. Sono certa che le patatine non farebbero in tempo ad arrivare a casa. E le mie dita unte.

Mentire. Mentire è una cosa complessa e semplicissima allo stesso tempo. La telefonata tra la nonna e la nipote, all’inizio di The Farewell  è quasi identica a quelle che faccio io spesso, non solo con mia madre, ma anche tutte le volte in cui cerco di proteggere gli altri e le altre da possibili preoccupazioni per me. E tutte le volte in cui cerco di proteggere me dall’esondare.

è tutto ok, sì, sì sto bene, nessuna novità, sono in giro, sto andando al cinema, da sola? no non da sola mamma, figurati. sì ho pranzato, no non preoccuparti, non solo insalata. sì il tempo è freddo, è inverno, è normale, ma non fa troppo freddo, tranquilla ho la sciarpa.

Lo dico, mentendo, mentre cammino, nella terza o quarta domenica consecutiva che trascorro in totale solitudine. Sì, sto andando al cinema da sola, ho mangiato uno yogurt, una banana, un biscotto caffé, mezzo panino con pomodoro e crudo. Forse qualche nachos rinsecchito. E mentre cammino ho solo molta voglia di piangere. Tiro su col naso, tanto fa freddo, si può far finta che sia quello.

Mentire mi protegge. Mi proteggo perché fa male parlare, dire che mi sento persa e non so bene dove guardare per capire come andare. E la vedo così chiaramente questa faccenda che la domenica si dedica alle persone importanti, la famiglia, i le compagni/e, si fanno delle gite, si sta rintanati a letto a vedere i filmetti. E mi provoca una sofferenza che mi chiude lo stomaco e mi fa serrare i denti. Sono sempre allo stesso punto, come se la corrente fosse troppo forte per farmi andare avanti.

Io me ne vado in giro a spendere soldi, l’unico posto che occupo legittimamente è quello di consumatrice. Il mercato mi vuole, sono e sarò sempre una sua priorità. Più ne sei consapevole più è sconcertante. Eppure cammino con la mia busta di carta e un cappotto di cui non avevo bisogno.

Eppure, il desiderio che arrivi un momento in cui sarò seduta sul letto e avrò di fronte una per una tutte le persone a cui mento è forte. A ciascuna vorrei prendere la mano e dire: sono felice se ti preoccupi per me, no, non sto bene, sono stanca di badare solo a me stessa, non so a chi voglio stare vicino, non so dove voglio andare, ma metto un piede dietro l’altro e so che andrà tutto bene.

Vaso gelato – numero 2

Sto gelando alla fermata del 15, è tardi ma non voglio pagare un taxi. Sento il mio alito caldo e che sa dell’aglio che ho messo ieri nell’hummus. L’ho rimangiato stasera, che cazzata. Sento l’alito caldo sulla sciarpa che ho portato su fino al naso. Sto gelando.
Sento l’alito caldo e la parte superiore degli zigomi è molto fredda, gelata come i miei piedi. Delle volte penso che potrebbero cadermi le dita e non me ne accorgerei. Me le immagino lì, viola, che non riescono a muoversi.

Una coppia di giovanissimi alla fermata prova a scaldarsi, lei si abbassa e gli passa le mani sulle gambe ridendo, sfregando. Poi lui fa lo stesso, ma ridono di più perché le gambe di lei sono coperte solo da calze sottilissime, lui arriva a toccarla quasi sotto la gonna, corta, che indossa. Ridono ancora, si riportano alla stessa altezza e si abbracciano. Io sorrido, lo stesso sorriso di quando guardo una bambina o un cagnolino, lo stesso sorriso di quando osservo (o fisso?) le persone in metropolitana. Come da dietro un vetro.
Chissà com’è stare a gelare alla fermata insieme a qualcuno.

Sono sola. Arrivo nei posti da sola e me ne torno a casa ad sola.
Lo rivendico e me ne rafforzo. Il più delle volte.
Oggi, ne soffro.

Mi sento un vaso gelato che non riesce ad accettare di volersi sbrinare. Non riesce a chiedere di voler essere scaldato, con delle mani che sfregano fino a farlo fiorire.
Mi sento un vaso gelato alla fermata del 15, attorno a me si muovono tuttx, accelerano il passo e si stringono tra le spalle e hanno un posto dove andare insieme a qualcun’altrx.

Ma un vaso gelato non sa cosa vuole, è gelato, il suo presente è cristallizzato e la primavera molto lontana.

Giallo pipì

La pipì ha iniziato a scapparmi a Caiazzo, mancavano ancora alcune fermate, troppe.
Di fronte a me una ragazza con lo sguardo tristissimo, parla sottovoce al suo vicino di posto, indossa un cappotto rosso peloso.
Penso che io indosso un montgomery giallo che sta già diventando nero dopo due volte che l’ho messo. Quanto fa schifo l’aria che respiro? Perché ho comprato un cappotto giallo, che scema.
Ascolto Time la mia nuova fissa, credo di riuscire ad arrivare a 20 ascolti consecutivi nella stessa giornata.

Poi passo ad altro.
Consumo le cose velocemente, esco di casa e penso solo ad ascoltare Time, poi ancora ed ancora, altrimenti sento che manca qualcosa. Poi una mattina non ne ho più voglia.
Mi ricorda il modo di relazionarmi ad altre cose, forse ben più importanti della mia playlist su spotify.

Mi scappa la pipì e siamo ancora a Garibaldi.
Penso al desiderio insoddisfatto, alla mia tendenza di volere qualcosa ma di perdere interesse se il desiderio può essere soddisfatto. Se rimane incompiuto, mi piace.Lasciare il desiderio insoddisfatto, unico modo in cui lo faccio esistere e riesco a goderne.Mi fa stare bene quello che non c’è.
Mi fa stare bene quello che non c’è?

Non penso più, mi sto pisciando addosso, corro verso casa.

Vaso gelato – numero 1

Ascolto  Mariners apartment complex di Lana Del Rey. Per la prima volta. Mi chiedo, perché l’ho ignorata per così tanto tempo?

Mentre piangi qui davanti a me
Sei bella come un vaso gelato
Ieri ho visto una pianta in un vaso gelato
Una pianta gelata, in un vaso gelato
È stata la cosa più bella che ho visto ieri
Adesso, che piangi qui davanti a me
Sei bella come quel vaso

Così ha detto. O così me lo ricordo io. Cercava di spiegarmi il suo punto di vista. C’era del bene in quelle parole, c’era come sempre il suo mostrarsi, spogliarsi davanti a me. Mentre io mi copro e metto strati su strati di ogni materiale che trovo.  Sentivo le lacrime che scivolavano sulle guance. Le lacrime hanno sempre un grande potere consolatorio per me. Mentre scendono mi sento al sicuro. So che ci sarà un momento in cui smetteranno di piovere sulla mia giacca, ma mentre lo fanno mi sento nel giusto.

Di quella conversazione, il giorno dopo e quello dopo ancora, mi è rimasta in mente soprattutto l’immagine di un vaso gelato.

Pulito il campo da lui e dai suoi pensieri, come sempre accade, scomparsa una persona dalla scena momentanea e contestuale dei momenti della mia vita, sono i miei, di pensieri, a riempire lo spazio fino a non lasciare neanche un centimetro di pavimento libero. Cotone ovunque, quasi a soffocarmi.

Il vaso gelato. Sono un vaso gelato? Mi sento un vaso gelato? Sì. La rabbia che mi ha scatenato quella immagine, sono bella come un vaso gelato. Una cosa inanimata, senza cuore, senza respiro, senza sistema nervoso. La rabbia che ho sentito il giorno dopo e che mi ha fatto serrare le mascelle.

Quella rabbia è lì perché io mi sento un vaso gelato.

 

Lo spazio magico

Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.

È così perfetta l’attesa (o l’intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della vita?

Maria Luisa Spaziani