Ginocchia sbucciate

venerdì 17 2020 treno desio-milano p.ta garibaldi

Ci sono dei ventilatori sul soffitto di questo palazzetto che adesso è una chiesa evangelica, credo. Si muovono, le pale ruotano e mi chiedo se siano accesi o se siano gli spifferi, lì in alto. Eppure ci sono i riscaldamenti, a 26°, fanno così rumore che da dove sono non sento il ministro o pastore. Non saprei come chiamarlo. Poi ce ne sono due, uno sembra più importante dell’altro.
Ci sono dei vasi di felci sulle scale interne.
Ci sono dei bigliettini da visita blu su cui noto solo la parola gospel. Gospel bianco scritto maiuscolo. C’è un orologio dell’ikea identico a quello che abbiamo in ufficio.
Prendo un bigliettino mentre aspetto, non lo guardo neanche perché quel gesto che ho fatto quasi istintivamente non ha niente a che vedere con il motivo per cui sono lì. Me ne vergogno.
Sono in una chiesa che non ha niente delle chiese che conosco, se non una croce bianca che noto dopo un po’. La chiesa non è buia, non sa di incenso, non è stretta e lunga. È un palazzetto.

Sono lì perché qualcuno è morto.
Entra la bara ricoperta di fiori ed è sempre la cosa più strana. È strano immaginarsi un attimo prima vivi e un attimo dopo chiusi in una scatola di legno. Provo sempre molta invidia per chi ha la certezza che non siamo in quella scatola di legno ma altrove.

È morta una persona, un papà, un marito, un fratello, un cugino, un amico di qualcuno seduto lì. Sono lì per questo.

Mentre camminavo verso lì dalla stazione, con google maps aperto e le dita rigide dal freddo, Desio era gelata, piccoli cristalli di ghiaccio ricoprivano le aiuole e l’asfalto. Continuavo a pensare: e se cado? Mi rompo una gamba o il mento? Mi sbuccio un ginocchio? La mia mente non riesce a fermarsi, il peggio è sempre dietro l’angolo, i pensieri negativi per me hanno una funzione protettiva e protettrice. Mi convinco che se penso al peggio e poi succede, allora sarò pronta. È un pensiero automatico, cerco di arginarlo. Mi ricordo perché sono lì.

Arrivo sulla strada della chiesa e avvicinandomi riconosco una casa dove sono stata. Leggo sul muro una scritta che forse avevo già visto lì, ma oggi sembra essere una beffa. Sento un odore acre di morte, dice, o qualcosa di simile.

Un funerale.
Sì, è morto il papà di Roberto.
Chi è Roberto?
Un amico, sta diventando un amico, una persona che, con poco, mi è stata accanto in questi ultimi mesi. Roberto è una persona sorprendente.

Suo papà se ne è andato e sono lì perché voglio essere lì per lui, qualsiasi cosa significhi.
Il primo funerale che ricordo era quello del padre di federicaviola, morto improvvisamente. Avevamo 10 anni, andai con mio papà, ricordo che piansi attaccata a lui, non ricordo più se per lei, che era la mia migliore amica allora, o per me e mio papà, desiderando che non capitasse mai a me.

In “Vite che non sono la mia” si parla molto di morte. L’ho letto a tratti con sollievo, felice che qualcuno avesse scritto quello che spesso mi ritrovo a pensare. Sollievo, quando la morte colpisce gli altri e non me. Non solo sollievo e non per prima cosa sollievo. Ma anche sollievo, come a dire, è orribile che sia successa questa cosa, ma se fosse successo a me? Se fossi io a dover affrontare un vuoto, un’assenza, in quale strada buia sarei persa? I funerali mi fanno sentire scoperta, piango per il dolore altrui ma piango soprattutto per il mio. E me ne vergogno, ancora.

Mentre camminavo attenta a non scivolare e non rompermi le ossa, mi dicevo che non ero lì per piangere ma per stare vicino, anche solo occupando 10 centimetri di pavimento. Chissà poi quanti centimetri occupiamo quando stiamo in piedi. Chissà quanti ne occupo io che ho i piedi enormi.

Poi, lui si è alzato in piedi, con un quaderno che portava in tasca quando è entrato, si è avvicinato al leggío e al microfono.

Del resto delle cose dette dagli altri, delle letture religiose e dei canti, non ricordo molto. Forse il pastore alla fine, che mi sembrava delirare, e continuavo a non capire se avesse un accento veneto o sudamericano.  Ricordo la madre che da un piccolo taccuino, un’agenda, parlava del suo amore. Amore è qualcuno che ti fa sentire importante, anche quando ti senti, ti definisci o forse sei, “l’ultima ruota del carro”.

Poi, lui si è alzato in piedi, con il suo cappotto blu e una sciarpa beige poggiata attorno al collo, lunga. Si può essere così belli ed eleganti a un funerale? I suoi orecchini si vedono da dove sono io, in fondo.

Poi, lui si è alzato in piedi, ha aperto il quaderno e ha iniziato a leggere.

Ieri ho letto un articolo che parlava di traduzione, una traduttrice racconta che quando legge e traduce è come se ascoltasse una musica, il ritmo della musica nella lettura la guida. Per capire se ha tradotto bene deve risentire quella musica, quel ritmo.

Poi, lui si è alzato in piedi e si è fatto spazio nelle mie orecchie e nella tensione del palazzetto. L’ho sentito come una musica, scandiva le parole, faceva una pausa, prendeva fiato, leggeva consapevolmente, ci guidava tutti nel suo mondo, nel mondo di suo padre e in quella che è la storia di due persone o forse di quattro persone. Roberto parlava per sé e per chi era lì, le sue parole lucide ma non fredde, incredibilmente vere e bellissime, ci rassicuravano. Ci diceva, o si diceva?, andrà tutto bene. C’era il rimpianto, il dolore, il non detto, c’era lo sguardo attento, amoroso, che poggia sugli altri, che descrive suo padre, le sue mani e la sua fragile bellezza. Si ferma, il quaderno trema, riprende le forze, chissà dove le prende, mi chiedo. Si è fatto largo nel dolore suo e delle persone presenti. Com’è stabile nel suo andare a pezzi, com’è certo che suo padre sia nell’universo attorno a noi.

Com’è bello, di quella bellezza che emana una persona che ama senza fatica e senza rimpianti, che soffre senza vergogna, che sa dire grazie, vedere gli altri. Li riconosce e li ringrazia uno alla volta.

Com’è bello. Non posso che desiderare che non cada mai, o che al massimo si sbucci un ginocchio.

 

[edit: non era un palazzetto ma un capannone]

 

Camere separate (stralci di libro e di cuore, il mio) #1

In realtà mente perché avverte in sé tutta l’esilità delle proprie motivazioni. Sa solamente che deve mettersi in viaggio. Non sa più cosa fare di se stesso. Vorrebbe dormire anni, mille anni, sdraiato in un bosco silenzioso, su di un letto di foglie gialle abbaglianti, o rosse come la vite a ottobre, o arancioni come gli aceri canadesi, o carnosamente violacee. E ridestarsi cambiato. Vorrebbe camminare in silenzio attraverso i monti seguendo solamente il fruscio dei propri passi e del proprio respiro. Vorrebbe sentire dentro di sé l’odore della terra che si risveglia all’alba e che continua a dissolversi e marcire. Vorrebbe scomparire assorbito dai vapori di una torbiera fumante. Vorrebbe non tornare mai più dal suo viaggio, perdersi su un binario morto e scomparire senza lasciarsi dietro alcuna traccia. (p.42)

La solitudine è questa situazione un po’ buffa, un po’ ridicola, un po’ aggressiva di un uomo seduto al tavolo di un ristorante turistico: l’immagine di una persona incompleta, tanto goffa da sembrare stupida o arrogante. Leo deve incominciare a difendere questa sua solitudine. Non deve permettere che gli altri lo vedano come un atomo dalle valenze aperte, come qualcuno immiserito dalla mancanza di un compagno, di un amico, di un amore. La solitudine è anche scomodità. Obbliga a rivolgersi agli altri, a fare richieste continue. (p. 65)

La solitudine impietosisce gli altri. A volte lui sente lo sguardo indiscreto della gente posato sulla sua figura come un gesto di una violenza inaudita. Come se gli altri lo pensassero cieco e gli si accostassero per fargli attraversare la strada. Certe premure lo offendono più dell’indifferenza, perché è come se gli ricordassero continuamente che a lui manca qualcosa e che non può essere felice. Si vede con un lato del corpo sanguinante, una cicatrice aperta dalla quale è stata separata l’altra metà. Vorrebbe spiegare che sì, Thomas gli manca e di questo sta soffrendo. Ma che non avverte la propria solitudine come una disperazione. Si sta concentrando su di sé, si sta racchiudendo nelle proprie fantasie e nei propri ricordi. Sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio. (p. 66)

 

Camere separate. P.V. Tondelli.

From an actual lie

La sera verso quest’ora sui tram che passano da Cordusio c’è odore di fritto. Fritto zozzo di quello che si dice che poi ti scoppiano le vene.
Hanno aperto KFC lì accanto e forse aspettare troppo fa venire fame. O forse si diranno perché non prendiamo le patatine e il pollo fritto per cena, sì dai perché no.
I sacchetti sanno così tanto di cibo che ogni volta la mia bocca si riempie di saliva, e mi dico la prossima lo faccio anche io. Sono certa che le patatine non farebbero in tempo ad arrivare a casa. E le mie dita unte.

Mentire. Mentire è una cosa complessa e semplicissima allo stesso tempo. La telefonata tra la nonna e la nipote, all’inizio di The Farewell  è quasi identica a quelle che faccio io spesso, non solo con mia madre, ma anche tutte le volte in cui cerco di proteggere gli altri e le altre da possibili preoccupazioni per me. E tutte le volte in cui cerco di proteggere me dall’esondare.

è tutto ok, sì, sì sto bene, nessuna novità, sono in giro, sto andando al cinema, da sola? no non da sola mamma, figurati. sì ho pranzato, no non preoccuparti, non solo insalata. sì il tempo è freddo, è inverno, è normale, ma non fa troppo freddo, tranquilla ho la sciarpa.

Lo dico, mentendo, mentre cammino, nella terza o quarta domenica consecutiva che trascorro in totale solitudine. Sì, sto andando al cinema da sola, ho mangiato uno yogurt, una banana, un biscotto caffé, mezzo panino con pomodoro e crudo. Forse qualche nachos rinsecchito. E mentre cammino ho solo molta voglia di piangere. Tiro su col naso, tanto fa freddo, si può far finta che sia quello.

Mentire mi protegge. Mi proteggo perché fa male parlare, dire che mi sento persa e non so bene dove guardare per capire come andare. E la vedo così chiaramente questa faccenda che la domenica si dedica alle persone importanti, la famiglia, i le compagni/e, si fanno delle gite, si sta rintanati a letto a vedere i filmetti. E mi provoca una sofferenza che mi chiude lo stomaco e mi fa serrare i denti. Sono sempre allo stesso punto, come se la corrente fosse troppo forte per farmi andare avanti.

Io me ne vado in giro a spendere soldi, l’unico posto che occupo legittimamente è quello di consumatrice. Il mercato mi vuole, sono e sarò sempre una sua priorità. Più ne sei consapevole più è sconcertante. Eppure cammino con la mia busta di carta e un cappotto di cui non avevo bisogno.

Eppure, il desiderio che arrivi un momento in cui sarò seduta sul letto e avrò di fronte una per una tutte le persone a cui mento è forte. A ciascuna vorrei prendere la mano e dire: sono felice se ti preoccupi per me, no, non sto bene, sono stanca di badare solo a me stessa, non so a chi voglio stare vicino, non so dove voglio andare, ma metto un piede dietro l’altro e so che andrà tutto bene.

Vaso gelato – numero 2

Sto gelando alla fermata del 15, è tardi ma non voglio pagare un taxi. Sento il mio alito caldo e che sa dell’aglio che ho messo ieri nell’hummus. L’ho rimangiato stasera, che cazzata. Sento l’alito caldo sulla sciarpa che ho portato su fino al naso. Sto gelando.
Sento l’alito caldo e la parte superiore degli zigomi è molto fredda, gelata come i miei piedi. Delle volte penso che potrebbero cadermi le dita e non me ne accorgerei. Me le immagino lì, viola, che non riescono a muoversi.

Una coppia di giovanissimi alla fermata prova a scaldarsi, lei si abbassa e gli passa le mani sulle gambe ridendo, sfregando. Poi lui fa lo stesso, ma ridono di più perché le gambe di lei sono coperte solo da calze sottilissime, lui arriva a toccarla quasi sotto la gonna, corta, che indossa. Ridono ancora, si riportano alla stessa altezza e si abbracciano. Io sorrido, lo stesso sorriso di quando guardo una bambina o un cagnolino, lo stesso sorriso di quando osservo (o fisso?) le persone in metropolitana. Come da dietro un vetro.
Chissà com’è stare a gelare alla fermata insieme a qualcuno.

Sono sola. Arrivo nei posti da sola e me ne torno a casa ad sola.
Lo rivendico e me ne rafforzo. Il più delle volte.
Oggi, ne soffro.

Mi sento un vaso gelato che non riesce ad accettare di volersi sbrinare. Non riesce a chiedere di voler essere scaldato, con delle mani che sfregano fino a farlo fiorire.
Mi sento un vaso gelato alla fermata del 15, attorno a me si muovono tuttx, accelerano il passo e si stringono tra le spalle e hanno un posto dove andare insieme a qualcun’altrx.

Ma un vaso gelato non sa cosa vuole, è gelato, il suo presente è cristallizzato e la primavera molto lontana.

Giallo pipì

La pipì ha iniziato a scapparmi a Caiazzo, mancavano ancora alcune fermate, troppe.
Di fronte a me una ragazza con lo sguardo tristissimo, parla sottovoce al suo vicino di posto, indossa un cappotto rosso peloso.
Penso che io indosso un montgomery giallo che sta già diventando nero dopo due volte che l’ho messo. Quanto fa schifo l’aria che respiro? Perché ho comprato un cappotto giallo, che scema.
Ascolto Time la mia nuova fissa, credo di riuscire ad arrivare a 20 ascolti consecutivi nella stessa giornata.

Poi passo ad altro.
Consumo le cose velocemente, esco di casa e penso solo ad ascoltare Time, poi ancora ed ancora, altrimenti sento che manca qualcosa. Poi una mattina non ne ho più voglia.
Mi ricorda il modo di relazionarmi ad altre cose, forse ben più importanti della mia playlist su spotify.

Mi scappa la pipì e siamo ancora a Garibaldi.
Penso al desiderio insoddisfatto, alla mia tendenza di volere qualcosa ma di perdere interesse se il desiderio può essere soddisfatto. Se rimane incompiuto, mi piace.Lasciare il desiderio insoddisfatto, unico modo in cui lo faccio esistere e riesco a goderne.Mi fa stare bene quello che non c’è.
Mi fa stare bene quello che non c’è?

Non penso più, mi sto pisciando addosso, corro verso casa.

Vaso gelato – numero 1

Ascolto  Mariners apartment complex di Lana Del Rey. Per la prima volta. Mi chiedo, perché l’ho ignorata per così tanto tempo?

Mentre piangi qui davanti a me
Sei bella come un vaso gelato
Ieri ho visto una pianta in un vaso gelato
Una pianta gelata, in un vaso gelato
È stata la cosa più bella che ho visto ieri
Adesso, che piangi qui davanti a me
Sei bella come quel vaso

Così ha detto. O così me lo ricordo io. Cercava di spiegarmi il suo punto di vista. C’era del bene in quelle parole, c’era come sempre il suo mostrarsi, spogliarsi davanti a me. Mentre io mi copro e metto strati su strati di ogni materiale che trovo.  Sentivo le lacrime che scivolavano sulle guance. Le lacrime hanno sempre un grande potere consolatorio per me. Mentre scendono mi sento al sicuro. So che ci sarà un momento in cui smetteranno di piovere sulla mia giacca, ma mentre lo fanno mi sento nel giusto.

Di quella conversazione, il giorno dopo e quello dopo ancora, mi è rimasta in mente soprattutto l’immagine di un vaso gelato.

Pulito il campo da lui e dai suoi pensieri, come sempre accade, scomparsa una persona dalla scena momentanea e contestuale dei momenti della mia vita, sono i miei, di pensieri, a riempire lo spazio fino a non lasciare neanche un centimetro di pavimento libero. Cotone ovunque, quasi a soffocarmi.

Il vaso gelato. Sono un vaso gelato? Mi sento un vaso gelato? Sì. La rabbia che mi ha scatenato quella immagine, sono bella come un vaso gelato. Una cosa inanimata, senza cuore, senza respiro, senza sistema nervoso. La rabbia che ho sentito il giorno dopo e che mi ha fatto serrare le mascelle.

Quella rabbia è lì perché io mi sento un vaso gelato.

 

Lo spazio magico

Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.

È così perfetta l’attesa (o l’intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della vita?

Maria Luisa Spaziani

Ovunque fossi diretta

“Pensavo ai rifiuti, alla plastica che sventolava tra i rami, alla linea di strane cose intrappolate lungo il reticolato, e allora chiusi quasi gli occhi e immaginai che quello fosse il punto dove tutto ciò che avevo perduto dagli anni dell’infanzia era stato gettato a riva; adesso mi trovavo lì, e se avessi aspettato abbastanza, una minuscola figura sarebbe apparsa all’orizzonte in fondo al campo, e a poco a poco sarebbe diventata più grande, finché non mi fossi resa conto che era Tommy, e lui mi avrebbe fatto un cenno di saluto con la mano, forse mi avrebbe chiamata. La fantasia non andò mai al di là di questa immagine – non glielo permisi – e sebbene le lacrime mi rotolassero lungo le guance, non singhiozzavo né mi sentivo disperata. Aspettai un poco, poi tornai verso l’auto e mi allontanai, ovunque fossi diretta.”

Non lasciarmi – Kazuo Ishiguro

Più realistico

I miei hanno deciso di cambiare commercialista, scegliendo, tra l’altro, il marito della mia migliore amica.

A quanto pare non possono andarsene dicendo la verità (ovvero, fai cacarone) perché sennò pari mali. Quindi la mattina di Natale, a colazione, ragionano su quale scusa rifilargli.

Mia madre: scusa, ma ci riciemu ca ninniemu ‘tno zitu ri cristina (IT: scusa, ma gli diciamo che stiamo andando dal fidanzato di cristina).

Mio padre: ca propria, ci riciemu ca ninniemu nti gianni, ma cugnatu, ca o fa gratis ri cuannu si misi n pinzioni, mi pari ciù realissticu (IT: ma che dici, gli diciamo che andiamo da mio cognato gianni, che da quando è in pensione lo fa gratis. Mi sembra più realistico).

Io, cristina, che assisto in silenzio alla scena e che non ho un fidanzato e non ho un fidanzato commercialista, mi chiedo se sia il caso di applaudire.

 

Ritrovare: ovvero, dall’oroscopo è tutta in salita

Pensieri sparsi, potrebbero subire modifiche.

 

L’oroscopo di brezny di questa settimana parlava del prefisso RI. Quando lo troviamo davanti a parole che esistono già, svela mondi di significati diversi. Scoprire, riscoprire. Guardare, riguardare. Emergere, riemergere. Nascere, rinascere. Non sempre quel Ri porta con sé soltanto o semplicemente una ripetizione, il fare di nuovo – rifare. Più spesso genera una cosa nuova, segnala un parte in più, ci dice che è nato un percorso nuovo. A me sembra anche che aggiunga profondità e crescita.

Leggo l’oroscopo di brezny perché è una delle pose che mi diverto ad avere, per disegnare la personalità e identità della cristina trentunenne che sono adesso, un sollazzo, come quando vado a pescarmi un po’ di immagini di illustratrici e le salvo sul pc come a diciotto anni. Poi, spesso, non me ne faccio molto. Ogni tanto, però, mi torna in mente un’illustrazione, per un momento preciso, che spiega qualcosa in più di quello che succede. E la condivido, o la riguardo o me la stampo. Niente di che, ma aggiunge un pezzo al mio racconto, quello che mi dico e quello che dico ad altr*.

Lo stesso capita con l’oroscopo di brezny. Questa volta ho letto frettolosamente, in aeroporto, e non mi ha detto granché. Poi, stamattina, mentre giravo le stanze di casa a Modica e fotografavo una foto da piccola, con il mio cane Wolly – e ovviamente la postavo su instragram, rieccole, le pose – mi è tornato in mente.

Perché?

RItornare è quello che faccio ogni anno, quando scendo a casa per Natale. Che io non abbia più un solo posto da chiamare casa, lo darei ormai per assodato. Nonostante i tredici anni via dalla Sicilia, il posto in cui torno non è mai diventato “casa dei miei genitori”. Non è né più né meno casa dei luoghi che ho abitato a Milano. Forse delle volte è stato un luogo più sicuro, delle altre volte molto meno. Non sempre ciò che non muta mi rassicura, e ciò che sono stata il più delle volte mi terrorizza. Non è facile avere paura di quei passi che in un modo e in un altro hanno contribuito a rendermi quello che sono adesso, è una faticaccia.

Ogni anno, con le stesse identiche tempistiche, torno a casa. Ritorno a casa. Poi, dopo un po’ di giorni, torno a Milano. E anche in quel caso, ritorno a casa ancora una volta.

Come è facile capire, non è un processo lineare. Al contrario, implica un intreccio di sensazioni molto complesso, delle volte inestricabile, sempre sfiancante. Tutto è complicato dal fatto che, mentre a Milano il mio sentirmi a casa prende forma soprattutto fuori dallo spazio fisico della casa (che non è secondaria, ma per varie ragioni è sempre stata precaria) si estende e si dipana in strada, nelle cose che faccio, nella musica che ascolto mentre cammino, nelle fermate della metro e nei cinema, nei ricordi che posso associare a molti luoghi in città, a Modica la mia dimensione è domestica. A Modica torno ad essere più piccola e indifesa, cristina che ha vissuto soprattutto la casa e poco la strada, da cui era fondamentalmente terrorizzata. Fuori dalle mura fisiche di via Trani e dal suo giardino, tolte pochissime cose, calpesto una terra che mi suona sempre più straniera. Non conosco nessuno, non riconosco i volti, se non quelli invecchiati di chi era adulto quando vivevo qui. Non conosco i posti, chi ha chiuso e chi ha aperto. Non ho la patente per attraversarli e rimango nel mio isolamento.

Quindi, tornare a Modica significa intrinsecamente tornare in una casa. Bella, ma un perimetro circoscritto e molto ridotto, se la confrontiamo a una città. È la casa dove mi sono trasferita a pochi mesi dalla nascita, dove sono cresciuta e ho visto nascere i miei fratelli, dove vivono i miei genitori, ormai rimasti soli, dove ha vissuto una lunga vita Wolly, dove si sono alternate poche altre persone sullo sfondo.

Oggi mi sono accorta che tutte le volte che ritorno faccio le stesse piccole cose. Entrando dal cancello con la macchina mi aspetto che Wolly ci venga incontro di corsa. È morto 13 anni fa, nell’ottobre del primo anno in cui ero via, lo so benissimo, però ho sempre l’impressione che lo vedrò sbucare. Il ricordo si è cristallizzato, non si sgualcisce. Il mio giardino non esiste senza di lui, non decolla.

Poi, arrivata in casa, inizio il giro. Il giro può svolgersi in più fasi, uno breve di ricognizione, seguito da altri più lunghi e attenti durante i giorni successivi. Giro per le stanze, inizio dalla mia, passo da quella di carlo e andre, dai bagni, passo dalla camera dei miei genitori, dal salotto e dalla cucina. Guardo se ci sono stati cambiamenti, nuovi oggetti, spostamenti. Con il passare del tempo mi accorgo di non ricordare quasi più com’era il salotto prima che mia madre lo rinnovasse, mentre ero già via. Ricordo solo i divani verdi ormai distrutti dall’uso e il rumore fastidioso che facevano quando sfregavamo le dita sui cuscini.

Poi mi concentro sugli oggetti, le suppellettili, le fotografie, i libri, i ciddì, le cartoline. Questa casa ha diverse stratificazioni, ci sono oggetti animati che segnalano che qui vive qualcuno, poi ci sono gli oggetti che servono, a chi ci vive, per ricordare. Le foto della nonna e del nonno giovanissimi in piazza Duomo, tra i piccioni. L’anno scorso questa foto non c’era. Le foto di me e Carlo laureati, sono spuntate poco tempo fa. La mia gigantografia con grembiulino bianco alla scuola materna, è stata appesa l’anno in cui sono partita, il 2006, e me ne sono lamentata al mio primo ritorno. Mi sono sentita morta. E forse un po’ era vero.

Nelle mie ricognizioni, quello che cerco è qualcosa che mi permetta di Ri conoscermi e di Ri trovarmi ogni volta. Tutti gli anni apro i cassetti in camera mia, pur sapendo che ci troverò sempre le stesse cose. Sfoglio i taccuini su cui disegnavo cose emo a 15 anni, esco uno per uno i libri da sotto il comodino, passo in rassegna mentalmente il periodo in cui li ho letti. Com’ero? Chi ero? Ricordo anche che jeans avevo e come portavo i capelli. Cerco gli altri libri negli scaffali fuori dalla mia stanza, mia madre ha riordinato, di chi sono questi libri? Faccio lo stesso con le foto, riguardo tutti gli album che teniamo in salotto. Parto da lontano, album di mamma da piccola, album di foto della famiglia cavallo, foto del matrimonio, foto di quando ero piccolina, magrina e bionda (è durata un’estate), foto delle pasque in cui eravamo circondat* da uova di cioccolato. Cerco somiglianze con persone che non ho mai conosciuto, spesso morte prima che nascessi, spesso vive ma assenti. Cerco vecchie cianfrusaglie negli scatoloni colorati che mia madre tiene ordinati in vari punti della casa.

Osservo, mi avvicino, scruto, tocco. Ravano e ravano. Ogni tanto trovo una cosa che non ricordavo, una foto in cui mia madre ha 27 anni e ha addosso la giacca rossa da moto di papà e sorride ed è bellissima.

Alcune volte la porto con me, quella novità. Il più delle volte la RImetto a posto. Non saprei bene che collocazione dare alle cose che Ritrovo nel posto in cui non vivo, Riportandole dove vivo. Forse non vedo un deposito sicuro, forse preferisco Riguardare pezzi della mia vita che mi Riguardano, solo nel contesto in cui riesco a dargli più senso. Dove non le metto in discussione.  Forse non ho ancora mai veramente affrontato quel sottofondo di tristezza che associo al mio passato, che mi sembra di aver tradito e tradire, andando lontano, stemperando il mio accento, facendo scelte diverse, rifiutando ciò che mi è stato dato e mi viene sempre offerto ogni volta che Ritorno.

Non ci ho mai pensato fino ad oggi.

È un inizio.