Ritrovare: ovvero, dall’oroscopo è tutta in salita

Pensieri sparsi, potrebbero subire modifiche.

 

L’oroscopo di brezny di questa settimana parlava del prefisso RI. Quando lo troviamo davanti a parole che esistono già, svela mondi di significati diversi. Scoprire, riscoprire. Guardare, riguardare. Emergere, riemergere. Nascere, rinascere. Non sempre quel Ri porta con sé soltanto o semplicemente una ripetizione, il fare di nuovo – rifare. Più spesso genera una cosa nuova, segnala un parte in più, ci dice che è nato un percorso nuovo. A me sembra anche che aggiunga profondità e crescita.

Leggo l’oroscopo di brezny perché è una delle pose che mi diverto ad avere, per disegnare la personalità e identità della cristina trentunenne che sono adesso, un sollazzo, come quando vado a pescarmi un po’ di immagini di illustratrici e le salvo sul pc come a diciotto anni. Poi, spesso, non me ne faccio molto. Ogni tanto, però, mi torna in mente un’illustrazione, per un momento preciso, che spiega qualcosa in più di quello che succede. E la condivido, o la riguardo o me la stampo. Niente di che, ma aggiunge un pezzo al mio racconto, quello che mi dico e quello che dico ad altr*.

Lo stesso capita con l’oroscopo di brezny. Questa volta ho letto frettolosamente, in aeroporto, e non mi ha detto granché. Poi, stamattina, mentre giravo le stanze di casa a Modica e fotografavo una foto da piccola, con il mio cane Wolly – e ovviamente la postavo su instragram, rieccole, le pose – mi è tornato in mente.

Perché?

RItornare è quello che faccio ogni anno, quando scendo a casa per Natale. Che io non abbia più un solo posto da chiamare casa, lo darei ormai per assodato. Nonostante i tredici anni via dalla Sicilia, il posto in cui torno non è mai diventato “casa dei miei genitori”. Non è né più né meno casa dei luoghi che ho abitato a Milano. Forse delle volte è stato un luogo più sicuro, delle altre volte molto meno. Non sempre ciò che non muta mi rassicura, e ciò che sono stata il più delle volte mi terrorizza. Non è facile avere paura di quei passi che in un modo e in un altro hanno contribuito a rendermi quello che sono adesso, è una faticaccia.

Ogni anno, con le stesse identiche tempistiche, torno a casa. Ritorno a casa. Poi, dopo un po’ di giorni, torno a Milano. E anche in quel caso, ritorno a casa ancora una volta.

Come è facile capire, non è un processo lineare. Al contrario, implica un intreccio di sensazioni molto complesso, delle volte inestricabile, sempre sfiancante. Tutto è complicato dal fatto che, mentre a Milano il mio sentirmi a casa prende forma soprattutto fuori dallo spazio fisico della casa (che non è secondaria, ma per varie ragioni è sempre stata precaria) si estende e si dipana in strada, nelle cose che faccio, nella musica che ascolto mentre cammino, nelle fermate della metro e nei cinema, nei ricordi che posso associare a molti luoghi in città, a Modica la mia dimensione è domestica. A Modica torno ad essere più piccola e indifesa, cristina che ha vissuto soprattutto la casa e poco la strada, da cui era fondamentalmente terrorizzata. Fuori dalle mura fisiche di via Trani e dal suo giardino, tolte pochissime cose, calpesto una terra che mi suona sempre più straniera. Non conosco nessuno, non riconosco i volti, se non quelli invecchiati di chi era adulto quando vivevo qui. Non conosco i posti, chi ha chiuso e chi ha aperto. Non ho la patente per attraversarli e rimango nel mio isolamento.

Quindi, tornare a Modica significa intrinsecamente tornare in una casa. Bella, ma un perimetro circoscritto e molto ridotto, se la confrontiamo a una città. È la casa dove mi sono trasferita a pochi mesi dalla nascita, dove sono cresciuta e ho visto nascere i miei fratelli, dove vivono i miei genitori, ormai rimasti soli, dove ha vissuto una lunga vita Wolly, dove si sono alternate poche altre persone sullo sfondo.

Oggi mi sono accorta che tutte le volte che ritorno faccio le stesse piccole cose. Entrando dal cancello con la macchina mi aspetto che Wolly ci venga incontro di corsa. È morto 13 anni fa, nell’ottobre del primo anno in cui ero via, lo so benissimo, però ho sempre l’impressione che lo vedrò sbucare. Il ricordo si è cristallizzato, non si sgualcisce. Il mio giardino non esiste senza di lui, non decolla.

Poi, arrivata in casa, inizio il giro. Il giro può svolgersi in più fasi, uno breve di ricognizione, seguito da altri più lunghi e attenti durante i giorni successivi. Giro per le stanze, inizio dalla mia, passo da quella di carlo e andre, dai bagni, passo dalla camera dei miei genitori, dal salotto e dalla cucina. Guardo se ci sono stati cambiamenti, nuovi oggetti, spostamenti. Con il passare del tempo mi accorgo di non ricordare quasi più com’era il salotto prima che mia madre lo rinnovasse, mentre ero già via. Ricordo solo i divani verdi ormai distrutti dall’uso e il rumore fastidioso che facevano quando sfregavamo le dita sui cuscini.

Poi mi concentro sugli oggetti, le suppellettili, le fotografie, i libri, i ciddì, le cartoline. Questa casa ha diverse stratificazioni, ci sono oggetti animati che segnalano che qui vive qualcuno, poi ci sono gli oggetti che servono, a chi ci vive, per ricordare. Le foto della nonna e del nonno giovanissimi in piazza Duomo, tra i piccioni. L’anno scorso questa foto non c’era. Le foto di me e Carlo laureati, sono spuntate poco tempo fa. La mia gigantografia con grembiulino bianco alla scuola materna, è stata appesa l’anno in cui sono partita, il 2006, e me ne sono lamentata al mio primo ritorno. Mi sono sentita morta. E forse un po’ era vero.

Nelle mie ricognizioni, quello che cerco è qualcosa che mi permetta di Ri conoscermi e di Ri trovarmi ogni volta. Tutti gli anni apro i cassetti in camera mia, pur sapendo che ci troverò sempre le stesse cose. Sfoglio i taccuini su cui disegnavo cose emo a 15 anni, esco uno per uno i libri da sotto il comodino, passo in rassegna mentalmente il periodo in cui li ho letti. Com’ero? Chi ero? Ricordo anche che jeans avevo e come portavo i capelli. Cerco gli altri libri negli scaffali fuori dalla mia stanza, mia madre ha riordinato, di chi sono questi libri? Faccio lo stesso con le foto, riguardo tutti gli album che teniamo in salotto. Parto da lontano, album di mamma da piccola, album di foto della famiglia cavallo, foto del matrimonio, foto di quando ero piccolina, magrina e bionda (è durata un’estate), foto delle pasque in cui eravamo circondat* da uova di cioccolato. Cerco somiglianze con persone che non ho mai conosciuto, spesso morte prima che nascessi, spesso vive ma assenti. Cerco vecchie cianfrusaglie negli scatoloni colorati che mia madre tiene ordinati in vari punti della casa.

Osservo, mi avvicino, scruto, tocco. Ravano e ravano. Ogni tanto trovo una cosa che non ricordavo, una foto in cui mia madre ha 27 anni e ha addosso la giacca rossa da moto di papà e sorride ed è bellissima.

Alcune volte la porto con me, quella novità. Il più delle volte la RImetto a posto. Non saprei bene che collocazione dare alle cose che Ritrovo nel posto in cui non vivo, Riportandole dove vivo. Forse non vedo un deposito sicuro, forse preferisco Riguardare pezzi della mia vita che mi Riguardano, solo nel contesto in cui riesco a dargli più senso. Dove non le metto in discussione.  Forse non ho ancora mai veramente affrontato quel sottofondo di tristezza che associo al mio passato, che mi sembra di aver tradito e tradire, andando lontano, stemperando il mio accento, facendo scelte diverse, rifiutando ciò che mi è stato dato e mi viene sempre offerto ogni volta che Ritorno.

Non ci ho mai pensato fino ad oggi.

È un inizio.