senza titolo

testo iniziato i primi di novembre (2022)

 

non è una recensione, non è una riflessione articolata, i riferimenti fuori da me sono pochi e associati per suggestioni

 

è un tentativo di capire meglio una cosa aggrovigliata che mi è venuta in mente dopo aver visto La pantera delle nevi

 

 

1

 

Mi capita raramente di voler scrivere qualcosa dopo aver visto un film. Come dicevo di recente a una persona – era da un po’ che non mi succedeva di parlare con unx cinefilx, e mi torna in mente quando ascoltavo Luca per ore (stra)parlare di film mentre lui, io e la sua bicicletta camminavamo per Roma – raramente mi trovo a mio agio commentando i film che ho visto.

 

Probabilmente i motivi sono tanti e intrecciati, non è particolarmente rilevante capire quale prevalga e quando.

Sicuramente mi dà sempre la sensazione che ci sia una competizione sotterranea, intellettiva o intellettuale, dietro queste conversazioni sui film, dopo i film. E io mi sono sempre sottratta.

1 Mi fa paura, mi fa sentire sotto osservazione o comunque potenzialmente giudicata. Dopo tutto, sono cresciuta tenendo in grande considerazione, implicita, ed esplicitamente negata, quello che gli altri o le altre pensavano di me. People pleaser si dice ormai sui reel di instagram. Mi ricordo una delle prime volte in cui ho parlato con un ragazzo che mi piaceva, ho mentito su due film che non avevo mai visto (se mi ricordassi i titoli potrei rimediare). Troppo imbarazzante l’alternativa di non essere all’altezza.

E se anche molti anni dopo, non lo faccio più, le volte in cui devo confrontarmi su qualcosa – qualcosa che mi piace tantissimo, come vedere film o leggere un libro – la cosa mi affatica. Perché se non sono altrx a esercitare su di me una certa pressione od ostentazione di sapere, capacità di lettura, interpretazione critica, allora sono io che rischio di farlo. In nessuna delle due direzioni questa modalità mi rassicura (o almeno, non lo fa più). 

 

2 Poi, non mi piace parlarne perché capita che i film di cui effettivamente parlerei, mi stimolano pensieri che hanno a che fare con dimensioni molto intime, ragionamenti che richiederebbero molti passaggi e molte spiegazioni su di me, per essere condivisi. Sensazioni che hanno a che vedere con l’essere caduta in un pozzo, come scriveva Natalia Ginzburg un bel po’ di anni fa. E’ faticoso pensare di poterlo fare e forse più faticoso ancora trovare qualcuno che capisca, quindi desisto.

Ricordo quando tuttx parlavano di Storia di un matrimonio. Mi era sembrato di stare in una stanza piena di persone che raccontavano di un viaggio a cui non avevo partecipato, in una lingua straniera. Mi ero limitata a dire che il film mi era piaciuto, senza essere in grado di dire che era stato devastante rendermi conto che non riuscivo in alcun modo a empatizzare con i protagonisti sulla scena, perché nei fatti non ho mai amato nessuno. 

 

3 Ancora, il più delle volte, il tempo che intercorre tra la fine di un film, che sia da quando chiudo il pc o da quando mi allontano dalla sala, e il momento in cui potrei parlarne, sembra spazzare via le sensazioni e in alcuni casi i pensieri stessi. Si volatilizzano o sono io che li forzo a non uscire: state lì, che tutto rimanga nei minuti della proiezione e non mi venga dietro, fatela finita. 

 

Ogni tanto però ho bisogno di parlarne, o di scriverne, solitamente succede quando noto una dissonanza tra come mi sentivo o quello che pensavo durante il film, e i pensieri, le considerazioni e soprattutto le domande sorte dopo. Spesso il giorno dopo. È il caso de La pantera delle nevi, visto il 2 novembre al Beltrade (in versione originale;ho sentito qualche minuto del film doppiato e fa accapponare la pelle).

 

Ero da sola. L’ultima volta che sono andata da sola al Beltrade erano i primi giorni del 2020, avevo visto Farewell, che faceva capolino anche in uno dei pochi post del blog che stavo cercando di riprendere in mano, poi fallito come sempre.  Stavo passando un periodo complicato, mi sentivo molto sola, una pianta gelata, pensarci mi angoscia, ma allo stesso tempo mi gongolo un po’, realizzando che due anni di pandemia dopo e nessuna grossa differenza relazionale – mi ero convinta che il problema fosse non avere un partner – sto molto meglio. 

 

Insomma, ho visto La pantera delle nevi e via via che sono trascorse le ore dalla proiezione, mi sono fatta molte domande sul perché mi sia piaciuto così tanto. E se questa cosa vada spiegata, e in che forma, almeno alle persone a cui l’ho consigliato subito dopo. O se più in generale, vada spiegata per capirla meglio: cosa che mi sono abituata a fare per molto di ciò che mi succede. Se parlo, scrivo, provo a spiegare, faccio ordine, vedo le parole, le sento, allora le capisco molto meglio di quando stavano solo dentro di me. 

 

È una banalità? Forse sì, ma teniamo questa parola perché tornerà ancora.

 

2

 

Partirei da una premessa scontata: tutte le volte che ci mettiamo davanti a un film, abbiamo una certa sensibilità o predisposizione, un misto di presente cogente (oggi, 2 novembre 2022) e di chi siamo, cosa stiamo passando, cosa ci piace più guardare, in cosa ci vogliamo rispecchiarci o meno, se vogliamo trovare modi per capire meglio questioni che ci stanno a cuore, o semplicemente se vogliamo svagarci, staccare il cervello, goderci un film fatto bene solo perché ci piace vedere una cosa bella (solo in parte estenderei lo stesso ragionamento alla narrativa per esempio).  

Non di rado mi è capitato di non essere d’accordo con me su un film, a distanza di anni e la trovo una cosa rassicurante. Allo stesso tempo, sono assolutamente in grado di capire perché in quel momento avessi visto qualcosa in quel modo e ne avessi tratto quelle conseguenze. 

Quindi non servirebbe a granché dire come mai La pantera delle nevi mi è piaciuto, potrebbe essere una questione molto personale, solo mia, di come stavo mercoledì. 

Tuttavia, quello che da un po’ di anni sto cercando di fare, a fatica, è di non avere a che fare solo con me. E non solo perché questo modo di fare mi stava facendo crescere come una donna (sì, non è che a un certo punto si smette di crescere) isolata, anche quando immersa in relazioni sociali, ma anche per una questione politica. Vorrei trovare il modo di leggere e affrontare alcune questioni per quello che sono, ovvero qualcosa che va al di là di me, pur riguardando anche me. E vorrei provare a capire in che modo alcuni pensieri possano diventare dei piccoli fili percorribili che mettono in comune le parole, ma parole che siano lì non per ingrossare l’ego, ma per costruire cose nuove. 

 

Questo è forse il motivo principale per cui sto ancora pensando a La pantera delle nevi.

 

Mentre lo vedevo mi sentivo sempre più sciolta, come in progressivo rilassamento, una sensazione che a volte devo forzare quando per esempio, a letto, i miei muscoli sono molto rigidi, allora devo inspirare ed espirare per rilassarmi (sono fibromialgica, il rilassamento muscolare per me è come la sinistra nel pd: non esiste). La sensazione in sala è stata di progressivo srotolamento rilassato e meraviglia, a tratti commozione. In una delle poche scene in cui si vedono altre persone oltre al fotografo e allo scrittore protagonisti il mio cuore non ha retto: una sequenza con adulto e bambino che giocano mentre cade una neve soave, come due mondi che si avvicinano, lo splendore del piumaggio di un uccellino in primo piano, e una colonna sonora neanche troppo incredibile, ma con la voce di Nick Cave. E da queste sensazioni, che mi hanno stimolato per lo più le immagini (sulle parole tornerò dopo), vorrei partire.

 

3

 

Non sono stata cresciuta a contatto con la natura. Se escludiamo il mare, visto da fuori (che è molto diverso dal mare visto da dentro) e da una porzione di mondo vegetale su cui è stata costruita casa mia (che ancora oggi a tratti, la mia famiglia chiama campagna anche se siamo in pieno centro urbano), ho quasi per nulla sperimentato il contatto con quello che riguarda più gli esseri viventi non umani che gli umani. 

 

Sono sempre stata una persona molto sensibile e attenta ai dettagli, ma la mia attenzione (visiva, mentale, politica) è sempre stata molto attirata e sollecitata dagli umani. Se escludiamo un’amicizia lunga, ma molto strana, direi oggi distaccata, con Wolly, un cane che mio padre acquistò (la specifica è d’obbligo) nel 1992, vissuto per sedici anni, e a cui ancora oggi mi sento molto legata – mi capita di pensare di vederlo, tornando a casa – non ho avuto reali contatti con animali. Né conoscenza, neanche minima, delle o passione per le piante. 

 

Negli ultimi tre anni (tre a spanne, è abbastanza inverosimile e delle volte controproducente cercare di trovare dei precisi punti di svolta o di cambiamento nella propria vita, cancella il fatto che la trasformazione e il cambiamento siano un processo e non una finestra che si apre o chiude) sto cercando di capire che relazione può esserci, o vorrei che ci fosse, tra me e il mio modo di vivere, e ciò che non è urbano o antropizzato, insieme a chi in teoria vive questa terra da animale non umano.

 

Per farlo non ho seguito uno schema preciso, forse posso riprendere alcuni flash senza logica o cronologia ma in sostanza, da buona secchiona, ho trovato i modi per me più adatti e confortevoli di rieducarmi a ciò che non conoscevo e non conosco. Sono solo all’inizio, ovvero ho iniziato a farlo usando ancora soprattutto strumenti che maneggio bene e stando nella mia comfort zone. Conto di uscirne a un certo punto. Ecco i flash. 

 

-Osservare il cambiamento degli alberi e delle piante e di ogni altra forma vivente a casa a Modica, nei quattro mesi trascorsi lì. Ripetizione, osservazione. Sembra pazzesco, ma in 18 anni in cui ho vissuto lì non ho mai passeggiato tra i carrubi né mai capito quanti diavolo di alberi da frutto ci fossero. 

– Camminare in luoghi diversi dalle mie amate città, dove ho sempre desiderato stare e perdermi (la me adolscente mi guarda con grande disapprovazione).

– Camminare nelle cave (fluviali, per i non autoctoni).

– Camminare e solo camminare (estate 2019). 

-Un breve passaggio di decolonialità e privilegio di rachele borghi su una pubblicità di hamburger nel metrò di parigi (ma molto più di questo). 

-Aver smesso di mangiare animali non umani, aver quasi completamente eliminato i loro derivati.  

-My octopus teacher – Film documentario diretto da Pippa Ehrlich e James Reed – 2020 (la traduzione in italiano rende l’idea di quanto poco si sia colto il senso del documentario, trasformando in “amico in fondo al mare” quello che nella versione originale è un’insegnante, apostrofo d’obbligo perché il pronome usato durante il film è sempre she).

-Alcuni testi, alcuni morsicati altri conclusi: altre menti; animali non umani; questioni di specie.

 

Ecco, con queste lenti, 90’ di fotografie e sequenze meravigliose di paesaggi completamente nuovi, incontaminati, privi della nostra presenza e immagini di animali, ripresi – pare con grande rispetto – durante lo svolgersi della loro vita, per me non rappresentano niente di già visto.  E in più, si insinuano in un piccolo spazio che ho appena iniziato a creare e che è dedicato a stupore e meraviglia per qualcosa che non avevo praticamente idea che esistesse. E che mi sembra possa essere grandissima fonte di gioia, al di fuori degli schemi di funzionamento sociale a cui siamo abituate.

 

Se anche quindi la mia meraviglia avesse annebbiato altre letture (mi viene il sospetto quindi di non essere stata oggettiva nel valutare il film in termini tecnici, non che io sia un’esperta ma ormai un po’ di occhio ce l’ho), mi interessa così tanto essere respingente, cinica, disfattista e in fin dei conti snob e supponente, rispetto al potenziale magico di una complessa bellezza naturale? 

 

La prima risposta è senz’altro no, non mi interessa. E non perché i cani sono meglio delle persone (frase su cui dovremmo aprire un’altra discussione), ma perché guardare con attenzione, riconoscere come complesso, conoscere e capire (o conoscere e non capire), meravigliarsi, leggere la bellezza di tutto ciò che è vivente ma diverso dall’essere umano, potrebbe aiutarci in almeno due cose: prenderci delle responsabilità e provare a (ri)costruire non in termini dicotomici (ti contemplo o ti sfrutto) ma di relazione/interazione più paritaria, il nostro rapporto con gli elementi e i viventi. 

 

Un altro elemento che collego molto alla mia reazione mentre vedevo il film è legato al fatto che potrebbe genericamente farci bene reagire a ciò che diamo per scontato, o che non reputiamo prioritario nel nostro quotidiano (anche se lo è, a un certo punto viene fuori), come fanno i bambini e le bambine: con schiettezza e meraviglia, senza troppo timore (almeno finché sono piccolinx e hanno adulti di riferimento che fanno uno sforzo di supporto e non di giudizio) di mostrare quello che sentono, qualunque cosa sia, senza essere additati come ingenui o banali. 

 

 

Torniamo alla parola banale, che forse è quella che mi è venuta in mente di più il giorno dopo. Il documentario prende le mosse da un libro scritto da Sylvain Tesson che è anche uno dei due principali protagonisti umani del film. La sua voce, nella lettura di alcuni passi del suo libro (o comunque di testi da lui scritti) accompagna le immagini e la musica. È forse la cosa che mentre guardavo ho notato meno, ma che il giorno dopo mi ha fatto sorgere alcuni dubbi: le frasi sono molto personali – in che modo quel viaggio, quegli appostamenti, gli scambi con il compagno di avventure, lo abbiano fatto riflettere sulla propria vita, le priorità, la felicità, l’amore – ma proposte come spunti di riflessione generale, direi comunitaria. 

 

Dov’è il (mio) dubbio e poi il (mio) fastidio? Con negli occhi quelle meravigliose immagini, quelle frasi mi sembravano coerenti, direi quasi giuste: le contraddizioni della vita contemporanea, la città, la frenesia, non lasciare spazio al bello, alla natura, il tentativo umano di sopraffazione, la velocità senza mai lasciare spazio alla lentezza etc. Eppure il giorno dopo, quelle stesse frasi suonavano nella mia testa come estremamente banali. Al punto che mi sono quasi vergognata di non averlo notato (sì, ok, sono una drama queen).  

 

Allora ho aperto l’internet e ho cercato sul dizionario il termine banale, scoprendo che deriva da un termine francese che inizialmente indicava qualcosa di «appartenente al signore» (inteso proprio come signore nel sistema feudale, non come u signuri come io avevo erroneamente interpretato all’inizio da buona terrona che sono), ma che è diventato poi indicativo di qualcosa di  «comune a tutto il villaggio». Insomma, una cosa comune a tutto il villaggio, dopotutto, non può avere carattere di eccezionalità od originalità, diventa priva di particolare importanza, dunque è banale, ovvia, scontata. Il passaggio da qualcosa di comune a tutti, al valore spregiativo dell’aggettivo banale, mi ha fatto sobbalzare.

 

Su instagram seguo una pagina in cui Niall Breen pubblica le sue strisce che per lo più sono racconti di una bizzarra coppia di un doggo e una ranocchia. 

 

Alcuni giorni le guardo e sorrido, altri mi chiedo se io non stia perdendo colpi dietro disegni e messaggi così banali, che il più delle volte raccontano amore, affetto, cura e presenza. 

Ma che c’entra Niall Breen con la pantera delle nevi? 

 

Mi sono chiesta se mi (e ci) faccia effettivamente bene cestinare (o snobbare) alcuni discorsi come banali – giudicandoli per esempio come privi di complessità o spessore, o esenti dal dolore – quando invece veicolano messaggi che ridanno centralità a temi che non solo stiamo palesemente ignorando (vedi alla voce: ecosistema o cura) ma che potrebbero essere terreno di lavoro, cooperazione, scambio comunitario. Quindi, essere o diventare ragione per avvicinarci e unirci nelle lotte e non allontanarci e separarci. 

 

E se la frase banale fuori campo di chi racconta di essersi guardato dentro durante un periodo in Tibet, lontano dal rumore assordante di una metropoli, più che essere autoconclusiva in sé – e quindi sì, forse priva di originalità perché chiude e non apre – fosse solo uno spunto, la strada su cui ci si mette per capire come lavorare dentro e fuori dalla metropoli perché smetta di essere luogo di oppressione e sfruttamento che non ci permettere di vivere una vita piena e felice? 

 

Domanda banale?

 

Ginocchia sbucciate

venerdì 17 2020 treno desio-milano p.ta garibaldi

Ci sono dei ventilatori sul soffitto di questo palazzetto che adesso è una chiesa evangelica, credo. Si muovono, le pale ruotano e mi chiedo se siano accesi o se siano gli spifferi, lì in alto. Eppure ci sono i riscaldamenti, a 26°, fanno così rumore che da dove sono non sento il ministro o pastore. Non saprei come chiamarlo. Poi ce ne sono due, uno sembra più importante dell’altro.
Ci sono dei vasi di felci sulle scale interne.
Ci sono dei bigliettini da visita blu su cui noto solo la parola gospel. Gospel bianco scritto maiuscolo. C’è un orologio dell’ikea identico a quello che abbiamo in ufficio.
Prendo un bigliettino mentre aspetto, non lo guardo neanche perché quel gesto che ho fatto quasi istintivamente non ha niente a che vedere con il motivo per cui sono lì. Me ne vergogno.
Sono in una chiesa che non ha niente delle chiese che conosco, se non una croce bianca che noto dopo un po’. La chiesa non è buia, non sa di incenso, non è stretta e lunga. È un palazzetto.

Sono lì perché qualcuno è morto.
Entra la bara ricoperta di fiori ed è sempre la cosa più strana. È strano immaginarsi un attimo prima vivi e un attimo dopo chiusi in una scatola di legno. Provo sempre molta invidia per chi ha la certezza che non siamo in quella scatola di legno ma altrove.

È morta una persona, un papà, un marito, un fratello, un cugino, un amico di qualcuno seduto lì. Sono lì per questo.

Mentre camminavo verso lì dalla stazione, con google maps aperto e le dita rigide dal freddo, Desio era gelata, piccoli cristalli di ghiaccio ricoprivano le aiuole e l’asfalto. Continuavo a pensare: e se cado? Mi rompo una gamba o il mento? Mi sbuccio un ginocchio? La mia mente non riesce a fermarsi, il peggio è sempre dietro l’angolo, i pensieri negativi per me hanno una funzione protettiva e protettrice. Mi convinco che se penso al peggio e poi succede, allora sarò pronta. È un pensiero automatico, cerco di arginarlo. Mi ricordo perché sono lì.

Arrivo sulla strada della chiesa e avvicinandomi riconosco una casa dove sono stata. Leggo sul muro una scritta che forse avevo già visto lì, ma oggi sembra essere una beffa. Sento un odore acre di morte, dice, o qualcosa di simile.

Un funerale.
Sì, è morto il papà di Roberto.
Chi è Roberto?
Un amico, sta diventando un amico, una persona che, con poco, mi è stata accanto in questi ultimi mesi. Roberto è una persona sorprendente.

Suo papà se ne è andato e sono lì perché voglio essere lì per lui, qualsiasi cosa significhi.
Il primo funerale che ricordo era quello del padre di federicaviola, morto improvvisamente. Avevamo 10 anni, andai con mio papà, ricordo che piansi attaccata a lui, non ricordo più se per lei, che era la mia migliore amica allora, o per me e mio papà, desiderando che non capitasse mai a me.

In “Vite che non sono la mia” si parla molto di morte. L’ho letto a tratti con sollievo, felice che qualcuno avesse scritto quello che spesso mi ritrovo a pensare. Sollievo, quando la morte colpisce gli altri e non me. Non solo sollievo e non per prima cosa sollievo. Ma anche sollievo, come a dire, è orribile che sia successa questa cosa, ma se fosse successo a me? Se fossi io a dover affrontare un vuoto, un’assenza, in quale strada buia sarei persa? I funerali mi fanno sentire scoperta, piango per il dolore altrui ma piango soprattutto per il mio. E me ne vergogno, ancora.

Mentre camminavo attenta a non scivolare e non rompermi le ossa, mi dicevo che non ero lì per piangere ma per stare vicino, anche solo occupando 10 centimetri di pavimento. Chissà poi quanti centimetri occupiamo quando stiamo in piedi. Chissà quanti ne occupo io che ho i piedi enormi.

Poi, lui si è alzato in piedi, con un quaderno che portava in tasca quando è entrato, si è avvicinato al leggío e al microfono.

Del resto delle cose dette dagli altri, delle letture religiose e dei canti, non ricordo molto. Forse il pastore alla fine, che mi sembrava delirare, e continuavo a non capire se avesse un accento veneto o sudamericano.  Ricordo la madre che da un piccolo taccuino, un’agenda, parlava del suo amore. Amore è qualcuno che ti fa sentire importante, anche quando ti senti, ti definisci o forse sei, “l’ultima ruota del carro”.

Poi, lui si è alzato in piedi, con il suo cappotto blu e una sciarpa beige poggiata attorno al collo, lunga. Si può essere così belli ed eleganti a un funerale? I suoi orecchini si vedono da dove sono io, in fondo.

Poi, lui si è alzato in piedi, ha aperto il quaderno e ha iniziato a leggere.

Ieri ho letto un articolo che parlava di traduzione, una traduttrice racconta che quando legge e traduce è come se ascoltasse una musica, il ritmo della musica nella lettura la guida. Per capire se ha tradotto bene deve risentire quella musica, quel ritmo.

Poi, lui si è alzato in piedi e si è fatto spazio nelle mie orecchie e nella tensione del palazzetto. L’ho sentito come una musica, scandiva le parole, faceva una pausa, prendeva fiato, leggeva consapevolmente, ci guidava tutti nel suo mondo, nel mondo di suo padre e in quella che è la storia di due persone o forse di quattro persone. Roberto parlava per sé e per chi era lì, le sue parole lucide ma non fredde, incredibilmente vere e bellissime, ci rassicuravano. Ci diceva, o si diceva?, andrà tutto bene. C’era il rimpianto, il dolore, il non detto, c’era lo sguardo attento, amoroso, che poggia sugli altri, che descrive suo padre, le sue mani e la sua fragile bellezza. Si ferma, il quaderno trema, riprende le forze, chissà dove le prende, mi chiedo. Si è fatto largo nel dolore suo e delle persone presenti. Com’è stabile nel suo andare a pezzi, com’è certo che suo padre sia nell’universo attorno a noi.

Com’è bello, di quella bellezza che emana una persona che ama senza fatica e senza rimpianti, che soffre senza vergogna, che sa dire grazie, vedere gli altri. Li riconosce e li ringrazia uno alla volta.

Com’è bello. Non posso che desiderare che non cada mai, o che al massimo si sbucci un ginocchio.

 

[edit: non era un palazzetto ma un capannone]

 

Camere separate (stralci di libro e di cuore, il mio) #1

In realtà mente perché avverte in sé tutta l’esilità delle proprie motivazioni. Sa solamente che deve mettersi in viaggio. Non sa più cosa fare di se stesso. Vorrebbe dormire anni, mille anni, sdraiato in un bosco silenzioso, su di un letto di foglie gialle abbaglianti, o rosse come la vite a ottobre, o arancioni come gli aceri canadesi, o carnosamente violacee. E ridestarsi cambiato. Vorrebbe camminare in silenzio attraverso i monti seguendo solamente il fruscio dei propri passi e del proprio respiro. Vorrebbe sentire dentro di sé l’odore della terra che si risveglia all’alba e che continua a dissolversi e marcire. Vorrebbe scomparire assorbito dai vapori di una torbiera fumante. Vorrebbe non tornare mai più dal suo viaggio, perdersi su un binario morto e scomparire senza lasciarsi dietro alcuna traccia. (p.42)

La solitudine è questa situazione un po’ buffa, un po’ ridicola, un po’ aggressiva di un uomo seduto al tavolo di un ristorante turistico: l’immagine di una persona incompleta, tanto goffa da sembrare stupida o arrogante. Leo deve incominciare a difendere questa sua solitudine. Non deve permettere che gli altri lo vedano come un atomo dalle valenze aperte, come qualcuno immiserito dalla mancanza di un compagno, di un amico, di un amore. La solitudine è anche scomodità. Obbliga a rivolgersi agli altri, a fare richieste continue. (p. 65)

La solitudine impietosisce gli altri. A volte lui sente lo sguardo indiscreto della gente posato sulla sua figura come un gesto di una violenza inaudita. Come se gli altri lo pensassero cieco e gli si accostassero per fargli attraversare la strada. Certe premure lo offendono più dell’indifferenza, perché è come se gli ricordassero continuamente che a lui manca qualcosa e che non può essere felice. Si vede con un lato del corpo sanguinante, una cicatrice aperta dalla quale è stata separata l’altra metà. Vorrebbe spiegare che sì, Thomas gli manca e di questo sta soffrendo. Ma che non avverte la propria solitudine come una disperazione. Si sta concentrando su di sé, si sta racchiudendo nelle proprie fantasie e nei propri ricordi. Sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio. (p. 66)

 

Camere separate. P.V. Tondelli.

From an actual lie

La sera verso quest’ora sui tram che passano da Cordusio c’è odore di fritto. Fritto zozzo di quello che si dice che poi ti scoppiano le vene.
Hanno aperto KFC lì accanto e forse aspettare troppo fa venire fame. O forse si diranno perché non prendiamo le patatine e il pollo fritto per cena, sì dai perché no.
I sacchetti sanno così tanto di cibo che ogni volta la mia bocca si riempie di saliva, e mi dico la prossima lo faccio anche io. Sono certa che le patatine non farebbero in tempo ad arrivare a casa. E le mie dita unte.

Mentire. Mentire è una cosa complessa e semplicissima allo stesso tempo. La telefonata tra la nonna e la nipote, all’inizio di The Farewell  è quasi identica a quelle che faccio io spesso, non solo con mia madre, ma anche tutte le volte in cui cerco di proteggere gli altri e le altre da possibili preoccupazioni per me. E tutte le volte in cui cerco di proteggere me dall’esondare.

è tutto ok, sì, sì sto bene, nessuna novità, sono in giro, sto andando al cinema, da sola? no non da sola mamma, figurati. sì ho pranzato, no non preoccuparti, non solo insalata. sì il tempo è freddo, è inverno, è normale, ma non fa troppo freddo, tranquilla ho la sciarpa.

Lo dico, mentendo, mentre cammino, nella terza o quarta domenica consecutiva che trascorro in totale solitudine. Sì, sto andando al cinema da sola, ho mangiato uno yogurt, una banana, un biscotto caffé, mezzo panino con pomodoro e crudo. Forse qualche nachos rinsecchito. E mentre cammino ho solo molta voglia di piangere. Tiro su col naso, tanto fa freddo, si può far finta che sia quello.

Mentire mi protegge. Mi proteggo perché fa male parlare, dire che mi sento persa e non so bene dove guardare per capire come andare. E la vedo così chiaramente questa faccenda che la domenica si dedica alle persone importanti, la famiglia, i le compagni/e, si fanno delle gite, si sta rintanati a letto a vedere i filmetti. E mi provoca una sofferenza che mi chiude lo stomaco e mi fa serrare i denti. Sono sempre allo stesso punto, come se la corrente fosse troppo forte per farmi andare avanti.

Io me ne vado in giro a spendere soldi, l’unico posto che occupo legittimamente è quello di consumatrice. Il mercato mi vuole, sono e sarò sempre una sua priorità. Più ne sei consapevole più è sconcertante. Eppure cammino con la mia busta di carta e un cappotto di cui non avevo bisogno.

Eppure, il desiderio che arrivi un momento in cui sarò seduta sul letto e avrò di fronte una per una tutte le persone a cui mento è forte. A ciascuna vorrei prendere la mano e dire: sono felice se ti preoccupi per me, no, non sto bene, sono stanca di badare solo a me stessa, non so a chi voglio stare vicino, non so dove voglio andare, ma metto un piede dietro l’altro e so che andrà tutto bene.

Vaso gelato – numero 2

Sto gelando alla fermata del 15, è tardi ma non voglio pagare un taxi. Sento il mio alito caldo e che sa dell’aglio che ho messo ieri nell’hummus. L’ho rimangiato stasera, che cazzata. Sento l’alito caldo sulla sciarpa che ho portato su fino al naso. Sto gelando.
Sento l’alito caldo e la parte superiore degli zigomi è molto fredda, gelata come i miei piedi. Delle volte penso che potrebbero cadermi le dita e non me ne accorgerei. Me le immagino lì, viola, che non riescono a muoversi.

Una coppia di giovanissimi alla fermata prova a scaldarsi, lei si abbassa e gli passa le mani sulle gambe ridendo, sfregando. Poi lui fa lo stesso, ma ridono di più perché le gambe di lei sono coperte solo da calze sottilissime, lui arriva a toccarla quasi sotto la gonna, corta, che indossa. Ridono ancora, si riportano alla stessa altezza e si abbracciano. Io sorrido, lo stesso sorriso di quando guardo una bambina o un cagnolino, lo stesso sorriso di quando osservo (o fisso?) le persone in metropolitana. Come da dietro un vetro.
Chissà com’è stare a gelare alla fermata insieme a qualcuno.

Sono sola. Arrivo nei posti da sola e me ne torno a casa ad sola.
Lo rivendico e me ne rafforzo. Il più delle volte.
Oggi, ne soffro.

Mi sento un vaso gelato che non riesce ad accettare di volersi sbrinare. Non riesce a chiedere di voler essere scaldato, con delle mani che sfregano fino a farlo fiorire.
Mi sento un vaso gelato alla fermata del 15, attorno a me si muovono tuttx, accelerano il passo e si stringono tra le spalle e hanno un posto dove andare insieme a qualcun’altrx.

Ma un vaso gelato non sa cosa vuole, è gelato, il suo presente è cristallizzato e la primavera molto lontana.

Giallo pipì

La pipì ha iniziato a scapparmi a Caiazzo, mancavano ancora alcune fermate, troppe.
Di fronte a me una ragazza con lo sguardo tristissimo, parla sottovoce al suo vicino di posto, indossa un cappotto rosso peloso.
Penso che io indosso un montgomery giallo che sta già diventando nero dopo due volte che l’ho messo. Quanto fa schifo l’aria che respiro? Perché ho comprato un cappotto giallo, che scema.
Ascolto Time la mia nuova fissa, credo di riuscire ad arrivare a 20 ascolti consecutivi nella stessa giornata.

Poi passo ad altro.
Consumo le cose velocemente, esco di casa e penso solo ad ascoltare Time, poi ancora ed ancora, altrimenti sento che manca qualcosa. Poi una mattina non ne ho più voglia.
Mi ricorda il modo di relazionarmi ad altre cose, forse ben più importanti della mia playlist su spotify.

Mi scappa la pipì e siamo ancora a Garibaldi.
Penso al desiderio insoddisfatto, alla mia tendenza di volere qualcosa ma di perdere interesse se il desiderio può essere soddisfatto. Se rimane incompiuto, mi piace.Lasciare il desiderio insoddisfatto, unico modo in cui lo faccio esistere e riesco a goderne.Mi fa stare bene quello che non c’è.
Mi fa stare bene quello che non c’è?

Non penso più, mi sto pisciando addosso, corro verso casa.

Vaso gelato – numero 1

Ascolto  Mariners apartment complex di Lana Del Rey. Per la prima volta. Mi chiedo, perché l’ho ignorata per così tanto tempo?

Mentre piangi qui davanti a me
Sei bella come un vaso gelato
Ieri ho visto una pianta in un vaso gelato
Una pianta gelata, in un vaso gelato
È stata la cosa più bella che ho visto ieri
Adesso, che piangi qui davanti a me
Sei bella come quel vaso

Così ha detto. O così me lo ricordo io. Cercava di spiegarmi il suo punto di vista. C’era del bene in quelle parole, c’era come sempre il suo mostrarsi, spogliarsi davanti a me. Mentre io mi copro e metto strati su strati di ogni materiale che trovo.  Sentivo le lacrime che scivolavano sulle guance. Le lacrime hanno sempre un grande potere consolatorio per me. Mentre scendono mi sento al sicuro. So che ci sarà un momento in cui smetteranno di piovere sulla mia giacca, ma mentre lo fanno mi sento nel giusto.

Di quella conversazione, il giorno dopo e quello dopo ancora, mi è rimasta in mente soprattutto l’immagine di un vaso gelato.

Pulito il campo da lui e dai suoi pensieri, come sempre accade, scomparsa una persona dalla scena momentanea e contestuale dei momenti della mia vita, sono i miei, di pensieri, a riempire lo spazio fino a non lasciare neanche un centimetro di pavimento libero. Cotone ovunque, quasi a soffocarmi.

Il vaso gelato. Sono un vaso gelato? Mi sento un vaso gelato? Sì. La rabbia che mi ha scatenato quella immagine, sono bella come un vaso gelato. Una cosa inanimata, senza cuore, senza respiro, senza sistema nervoso. La rabbia che ho sentito il giorno dopo e che mi ha fatto serrare le mascelle.

Quella rabbia è lì perché io mi sento un vaso gelato.

 

Lo spazio magico

Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.

È così perfetta l’attesa (o l’intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della vita?

Maria Luisa Spaziani

Ovunque fossi diretta

“Pensavo ai rifiuti, alla plastica che sventolava tra i rami, alla linea di strane cose intrappolate lungo il reticolato, e allora chiusi quasi gli occhi e immaginai che quello fosse il punto dove tutto ciò che avevo perduto dagli anni dell’infanzia era stato gettato a riva; adesso mi trovavo lì, e se avessi aspettato abbastanza, una minuscola figura sarebbe apparsa all’orizzonte in fondo al campo, e a poco a poco sarebbe diventata più grande, finché non mi fossi resa conto che era Tommy, e lui mi avrebbe fatto un cenno di saluto con la mano, forse mi avrebbe chiamata. La fantasia non andò mai al di là di questa immagine – non glielo permisi – e sebbene le lacrime mi rotolassero lungo le guance, non singhiozzavo né mi sentivo disperata. Aspettai un poco, poi tornai verso l’auto e mi allontanai, ovunque fossi diretta.”

Non lasciarmi – Kazuo Ishiguro

Più realistico

I miei hanno deciso di cambiare commercialista, scegliendo, tra l’altro, il marito della mia migliore amica.

A quanto pare non possono andarsene dicendo la verità (ovvero, fai cacarone) perché sennò pari mali. Quindi la mattina di Natale, a colazione, ragionano su quale scusa rifilargli.

Mia madre: scusa, ma ci riciemu ca ninniemu ‘tno zitu ri cristina (IT: scusa, ma gli diciamo che stiamo andando dal fidanzato di cristina).

Mio padre: ca propria, ci riciemu ca ninniemu nti gianni, ma cugnatu, ca o fa gratis ri cuannu si misi n pinzioni, mi pari ciù realissticu (IT: ma che dici, gli diciamo che andiamo da mio cognato gianni, che da quando è in pensione lo fa gratis. Mi sembra più realistico).

Io, cristina, che assisto in silenzio alla scena e che non ho un fidanzato e non ho un fidanzato commercialista, mi chiedo se sia il caso di applaudire.